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12 marzo 2024
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Gideon Levy, la terra rubata e la società d'Israele
di Rossella Ahmad

Era il 4 febbraio del 2018 quando Gideon Levy dalle pagine di Ha'aretz faceva un emotivo resoconto dell'incontro organizzato ad Amman, nella casa che la meravigliosa pittrice Tamam al-Akhal condivideva con Ismail Shammout, suo marito e pittore a sua volta. Incontri settimanali tra esuli palestinesi della borghesia, rifugiati due volte, nel '48 e poi nel '67, ad uno dei quali partecipò il giornalista israeliano per interrogare i palestinesi della diaspora, ascoltare le loro storie.

Anche allora, vi erano aiuti da portare ad una popolazione assediata.

Ad un certo punto, la domanda cruciale posta da un rifugiato all'intervistatore, in un curioso scambio di ruoli: com'è, come ci si sente a vivere su una terra rubata?

Non è facile rispondere, dice il giornalista. Per coloro che credono che questa terra gli appartenga perché Abramo è passato di qui ed ha acquistato una grotta o perché dio lo ha promesso, non è un problema rispondere. Anche per coloro che asseriscono di avere sempre sognato questa terra è facile rispondere, ma dovrebbero anche raccontare del perché non si siano mai preoccupati di stanziarsi qui in massa.

In realtà, prosegue Levy, mi sento molto in colpa, e provo anche vergogna. Non solo per il 1948, ma soprattutto per quanto accaduto da allora, che è stato una diretta continuazione della linea ideologica dell’espulsione del 1948 e che non è mai cessata.

Questo triplice approccio alla domanda delle domande, e cioè come si possa convivere con il fatto di aver rubato terre e case di un altro popolo, spiega in parte la società israeliana di oggi.

I primi due gruppi, maggioritari, stretti intorno alla destra razzista di Bibi Mileikowsky e del suo governo di fanatici religiosi, vogliono liberarsi dell'ombra ingombrante di ciò che avvenne, e vogliono farlo liberandosi materialmente dei palestinesi.

L'ultimo gruppo, minoritario, non saprei come definirlo. In esso convivono molte anime, che si muovono e pensano ed agiscono in maniera differente.

Una cosa è certa: si tratta di una società estremamente frammentata, che solo la guerra ed il militarismo spinto riescono in qualche modo a compattare. Un po' come gli Stati Uniti, ma moltiplicato per dieci.

Si tratta di una società in bancarotta morale, lo abbiamo già detto e tutti possono vederlo. In cui il disagio mentale è galoppante, come denuncia un articolo di Ha'aretz dello scorso dicembre. Che dà sfoggio di sadismo a tutti i livelli, come dichiarato da Agnoletto, fermato a Rafah assieme agli aiuti umanitari da consegnare ad una popolazione stremata, sotto assedio da ottobre.

Israele non si riprenderà mai più da questa cosa. È finita. Lo sanno, non possono non saperlo. Ormai tale considerazione è entrata anche nel dibattito semi-pubblico: ex ambasciatori e funzionari americani si chiedono se sia lecita questa cosa orrenda.

Se si possa parlare ancora di "diritto ad esistere" e non si debba parlare piuttosto di "merito di esistere". Se ne sia valsa la pena, e perché poi? Garantire il diritto all'esistenza di alcuni condannando a morte altri. Quale è la ratio, quale la giustizia, quale l'utilità per il mondo intero di una cosa del genere. Si mettono in dubbio certezze che sembravano inscalfibili.

La parabola discendente è cominciata. A Gaza, con un genocidio.

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