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20 maggio 2011
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Privacy e istruttoria nel processo di famiglia
di avv. Matteo Santini*

IL DECRETO LEGISLATIVO 196/2003 (PRINCIPI GENERALI E DEROGHE IN AMBITO GIUDIZIARIO)

Il diritto alla riservatezza è un diritto fondamentale della persona, tutelato dalla Carta costituzionale stessa. In particolare, tale matrice costituzionale è rinvenuta nell'articolo 2 della Costituzione, che “garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo che nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”. Accanto a tali norme di portata generale, il diritto alla riservatezza è indirettamente tutelato anche da ulteriori disposizioni a carattere specifico, come l'articolo 13 sulla libertà personale, l'articolo 14 sull'inviolabilità del domicilio, l'articolo 15 sulla inviolabilità della corrispondenza e l'articolo 21 sul diritto di libera manifestazione del proprio pensiero. È indubbio, quindi, che lo stesso si collochi tra i diritti fondamentali dell'individuo, ancorati alla Costituzione.

Il diritto dell’individuo a manifestare il proprio pensiero deve anche essere inteso come diritto di decidere e di scegliere i soggetti destinatari delle nostre manifestazioni del pensiero e come diritto di escludere i soggetti non graditi, dalle nostre conversazioni. Conseguenza logica è che un diritto di tal rango non può subire compressioni o limitazioni neanche in caso di rapporto di coniugio e/o convivenza. In altre parole, il matrimonio (a cui si deve equiparare una convivenza stabile, come ormai pacificamente riconosciuto dall'unanime dottrina e giurisprudenza) non vale ad escludere il rispetto della privacy dei singoli coniugi; il diritto alla riservatezza, in quanto diritto personalissimo, permane in capo a ciascuno di essi.

Come ha opportunamente rilevato la Cassazione, la disponibilità del domicilio da parte di più soggetti non vale ad escludere il diritto alla riservatezza di ciascun convivente (cfr. Cass. Pen. 9827/06, in tema di reato ex art. 615 c.p.). Se il matrimonio è unione materiale e spirituale, comunque ciascun coniuge ha il diritto di conservare la propria privacy. Ciò premesso dal punto di vista teorico, nella pratica, accade molto spesso che un coniuge cerchi di precostituirsi elementi di prova a carico del partner da usare nei giudizi di separazione e di divorzio, oppure faccia uso di dati già costituiti (parliamo quindi prove precostituite o costituende). La questione assume contorni problematici quando tali elementi probatori siano stati ottenuti o comunque trattati in violazione della normativa sulla privacy.

Il testo di riferimento è il Decreto Legislativo 196/2003 (cd. Testo Unico Privacy). Per trattamento di un dato personale, intendiamo sia l’acquisizione sia la rivelazione del dato a terzi sia la diffusione dello stesso. Per integrare una condotta di “trattamento dati” di cui al D. Lgs. Cit. è sufficiente anche la mera diffusione dei dati (cfr. art. 4 T.U. Cit.), da intendersi anche come produzione degli stessi in giudizio. Pertanto, anche tale condotta, laddove effettuata in spregio alle norme del Testo Unico citato, potrebbe integrare una condotta punibile. Quindi, ben potrebbe considerarsi responsabile il coniuge che diffonda dati personali del consorte (producendoli in giudizio) in violazione delle norme di cui al D. Lgs. 196/03, se dal fatto deriva nocumento per il soggetto passivo (cfr., in particolare, art. 167 D. Lgs. Cit.).

A questo punto è necessario, un accenno agli steps da seguire per trattare i dati “lecitamente”, laddove si vogliano poi usare in ambito giudiziario. In relazione ai dati personali, l'art. 13 T. U. Privacy introduce una deroga all'obbligo di preventiva informativa all'interessato, prevedendo l'esonero dalla stessa quando i dati personali devono essere trattati “per far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria, sempre che i dati siano trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento”. In questo caso, quindi, venendo in considerazione un diritto anch'esso costituzionale, il diritto di difesa, e di pari rango rispetto al diritto alla privacy, il legislatore ammette una compressione di quest'ultimo, purché l'esplicazione del diritto di difesa sia effettuata secondo correttezza.

In particolare, si richiede che:

  • i dati oggetto del trattamento siano esatti, da intendersi come precisi e rispondenti al vero; stessi completi, e cioè tali fornire esatte informazioni, senza estrapolare solo i contenuti utili per una parte;
  • l'uso degli stessi sia pertinente non eccedente, strettamente necessario e non sproporzionato in relazione al diritto che si intende far valere in giudizio;
  • il trattamento avvenga per il tempo strettamente necessario per fare valere il diritto in giudizio;
  • il trattamento avvenga privilegiando quelli strumenti che garantiscono la minore compromissione possibile della privacy altrui; nel senso che, se lo stesso risultato può essere raggiunto attraverso due differenti metodi di indagine, deve essere privilegiata l’indagine che determina il minore grado di compromissione dell’altrui riservatezza.

Normalmente i dati sensibili (e cioè i dati personali idonei a rilevare l'origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l'adesione a partiti, sindacati, associazioni o organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, nonché i dati personali idonei a rilevare lo stato di salute e la vita sessuale) sono oggetto di una tutela rafforzata. Di fatti, per poter trattare dati sensibili occorre, oltre al consenso dell'interessato e all'informativa (come per i dati personali), anche l'autorizzazione preventiva del Garante per la Protezione dati personali (art. 26 D. Lgs. 196/03).

IL TRATTAMENTO DEI DATI PERSONALI IN AMBITO GIUDIZIARIO

L'art. 26 cit. prevede al comma 4 la possibilità di trattare dati personali sensibili senza consenso dell'interessato (come da autorizzazione preventiva del Garante della Privacy, la n. 4/2009) “quando il trattamento è necessario per far valere o difendere in sede giudiziaria un diritto , sempre che i dati siano stati trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento. Se i dati sono idonei a rilevare lo stato di salute e la vita sessuale, il diritto deve essere di rango pari a quello dell'interessato, ovvero consistere in un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale e inviolabile”.

Ancora, l'articolo 60 T.U. Privacy, applicabile al caso di dati sensibili idonei a rilevare lo stato di salute e la vita sessuale contenuti in atti amministrativi, confermando la rafforzata tutela riconosciuta ai dati sensibili, ribadisce che, laddove manchi il consenso scritto dell'interessato, è possibile richiedere l'accesso agli atti amministrativi che contengono tali dati solo se “la situazione giuridicamente rilevante che si intende tutelare è di rango almeno pari ai diritti dell'interessato, ovvero consiste in un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale e inviolabile”. Anche per gli atti giudiziari non è richiesto il consenso dell’interessato, quando il trattamento degli stessi sia strettamente indispensabile per eseguire prestazioni professionali richieste dai clienti per scopi determinati e legittimi e nel rispetto del diritto alla difesa (aut. Gen. 7/2002). In pratica, per le finalità sopra descritte non è necessario né il consenso dell’interessato, né l’autorizzazione del Garante per trattare dati semplici o sensibili relativi a terzi, ove ciò sia necessario per far valere un diritto in giudizio e sempre nel rispetto dei principi di verità, completezza dei dati, pertinenza e non eccessività.

La ratio di tali deroghe all’obbligo di rispetto della privacy appare evidente: se devo compiere delle attività investigative per acquisire delle prove da utilizzare nel corso di un giudizio di separazione o di divorzio, se la controparte fosse informata della mia intenzione da un lato cambierebbe il proprio comportamento, proprio nella consapevolezza di essere stata attenzionata, dall’altro negherebbe comunque il consenso al trattamento dei suoi dati personali, ma soprattutto, tenterebbe di celare e di rendere il più difficile possibile per la controparte, la ricerca delle informazioni necessarie per far valere il diritto.

Ricapitolando, in relazione al trattamento lecito di dati personali da usare quali prove costituite o costituende; se trattasi di dati personali occorre il consenso e l'informativa; si può procedere senza informativa solo nelle ipotesi di cui all'articolo 13, comma 5, lett. b) D. Lgs. 196/03; sensibili consenso, l'informativa la previa autorizzazione del Garante; si può procedere senza il consenso dell'interessato solo nell'ipotesi di cui all'articolo 26 D. Lgs. 196/03.

I DATI PERSONALI TRATTATI IN VIOLAZIONE DEL DECRETO LEGISLATIVO

196/2003 Ciò premesso, a quale sorte vanno incontro i dati trattati in violazione delle disposizioni su indicate? L'articolo 11 D. Lgs. 196/03 sancisce l'inutilizzabilità di tutti quei dati trattati in violazione delle norme di cui al Decreto citato. Tuttavia, in relazione alla possibilità di utilizzazione di tali dati in ambito giudiziario, il legislatore ha introdotto una disciplina particolare, contenuta nell'articolo 160, comma 6, T.U. Privacy, secondo cui “la validità, l'efficacia e l'utilizzabilità di atti, documenti e provvedimenti nel procedimento giudiziario basati sul trattamento di dati personali non conforme a disposizioni di legge o di regolamento restano disciplinate dalle pertinenti disposizioni processuali nella materia civile e penale”.

E' evidente che l'intento del legislatore è stato quello di evitare caducazioni automatiche di atti e documenti introdotti in un processo, temperando la sanzione di cui all'articolo 11 D. Lgs. 196/03. Tuttavia, in materia penale la sanzione dell'inutilizzabilità è confermata; di fatti, il rinvio è all'articolo 191 c.p.p., che sancisce l'inutilizzabilità delle prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge (con le uniche eccezioni di cui all'articolo 189 c.p.p. per le prove cd atipiche e all'articolo 234 c.p.p. per le prove documentali). In materia civile, invece, è difficile delineare una regola generale. Si deve di fatti rilevare che, mentre in ambito penale è il legislatore che ha disposto preventivamente la sanzione dell'inutilizzabilità delle prove acquisite in violazione delle disposizione di leggi, in ambito civile manca una regola di tal tipo.

La valutazione circa l'ammissibilità delle prove è pertanto lasciata al giudice, salvo che disposizioni speciali prevedano diversamente. In altri termini, se nel processo penale si può affermare con certezza che prove assunte violando la normativa Privacy si debbano considerare inutilizzabili, nel processo civile ciò non è disposto preventivamente dalla legge e l'inutilizzabilità non è automatica conseguenza; sarà il giudice a dover valutare circa la loro utilizzabilità, caso per caso e usufruendo del potere discrezionale che gli è concesso dalla legge (art. 116 c.p.c.). Alcune categorie professionali, in particolare gli avvocati, utilizzano dati di carattere personale per svolgere attività investigative e difensive o comunque per far valere un diritto in sede giudiziaria.

L’utilizzo di questi dati è imprescindibile per garantire una tutela piena ed effettiva dei diritti, con particolare riguardo al diritto di difesa e al diritto alla prova: un’efficace tutela di questi due diritti non è pregiudicata, ed anzi è rafforzata, dal principio secondo cui il trattamento dei dati personali deve rispettare i diritti, le libertà fondamentali e la dignità delle persone interessate, con particolare riferimento alla riservatezza, all’identità personale e alla protezione dei dati personali. E’ opportuno analizzare nello specifico, la portata e l’estensione del diritto di difesa di rango costituzionale che legittima la compromissione della privacy altrui; è doveroso altresì sottolineare che, per diritto di difesa non si intende solo la difesa da un accusa di un terzo (possa trattarsi della magistratura inquirente o della controparte), ma anche il diritto di agire in giudizio, quindi di far valere un giudizio nei confronti di un terzo (come attore o ricorrente).

continua domani con "Le indagini patrimoniali e l'attività investigativa di parte"

* Presidente Nazionale del Centro Studi e Ricerche Diritto della Famiglia e dei Minori


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