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08 dicembre 2024
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Le bombe dell'Immacolata
di Rinaldo Battaglia *

“Raccontare dei successi e dei fischi non parlarne mai”.

Così un cantante quand’ero più giovane (Ron, in ‘Una città per cantare’) presentava il suo mondo. È sempre stato lo stesso, anche in politica e soprattutto nel narrare la Storia, dove le pagine scomode vengono negate e, quelle elettoralmente utili, esagerate. Da noi, come vittime da anni, si celebra (giustamente) il crimine delle foibe slave, ma guai a parlare dei crimini dai nostri soldati commessi, soprattutto nel biennio precedente, durante l’occupazione in terra jugoslava.

Lo stesso dicasi per le stragi commesse, dopo l’8 settembre 1943 dagli Alleati, quando di fatto erano diventati i nostri soci, se non i nostri padroni. Chi è che conosce il destino dei 184 bambini della scuola elementare del quartiere milanese di Gorla, uccisi nel bombardamento USA la mattina del 20 ottobre 1944?

Chi sa qualcosa dei 116 uccisi a Savona il 30 ottobre 1943, quando 156 aerei Alleati centrarono dal cielo le case del centro storico all'ora di pranzo?

L’8 dicembre di 81 anni fa, nel 1943, una squadriglia americana di aerei provenienti da Foggia, bombardarono la stazione e la vicina officina carte-valori della Banca d'Italia nel centro città dell’Aquila. Nessuno ha la contezza esatta dei morti, probabilmente tra i 200 e i 300: le 15 operaie e 4 operai del “reparto verifica” (il controllo dei biglietti già stampati) delle stesse officine, i 25 cittadini del quartiere Rivera (di due di essi non furono mai trovati nemmeno i corpi), i quasi 200 prigionieri inglesi ‘piombati’ nei vagoni dello scalo ferroviario destinati ai lager nazisti e, secondo un rapporto non ufficiale, gli oltre 50 soldati tedeschi, colpiti dalle bombe angloamericane. Molti, per ridurre il numero dei morti, tralasciano alcuni di loro (magari i nazisti o i prigionieri inglesi) – forse considerandoli meno importanti o uomini di serie B – ma la sostanza, nel merito, non cambia.

Per quei pochi – pochissimi - che conoscono questa strage, è stata battezzata come quella delle ‘bombe dell’Immacolata’. E così dando un riferimento temporale, passa in secondo piano il ‘dove’, il ‘come’ e soprattutto ‘chi’ ne fu il responsabile.

Più volte – ho raccolto articoli, uno dell’8 dicembre 2012 di Gianfranco Di Giacomantonio e il secondo di due anni esatti dopo di Amedeo Esposito, due affermati storici aquilani o molto legati a quel territorio - importanti studiosi si sono fortemente lamentati con le Istituzioni per il silenzio, totale ed assordante, che da sempre coprono, in Italia, proprio quelle ‘bombe dell’Immacolata’. Non se ne parla, non se ne deve parlare, nessuno deve sapere. Nei fatti, anche ogni anniversario della strage viene, volutamente o meno, ‘dimenticato’.

Ma cosa successe quel giorno, dedicato alla Concezione della Madonna?

Poche ore prima, all’alba dell’8 dicembre 1943 il comando generale angloamericano mandò un ordine preciso alle formazioni aeronautiche di stanza a Foggia: “Distruggete all’Aquila le officine carte e valori della Banca d’Italia”. Per gli aquilani quelle officine, quel luogo, erano la “zecca”, per tutti gli altri il “forziere” delle armate tedesche in Italia, dopo l’invasione conseguente all’armistizio, in base al piano Achse. Poche ore dopo fu un inferno. Soprattutto dentro la ‘zecca’ perché presto tutti capirono quale fosse l’obiettivo. Ma, quando gli operai e le operaie cercarono una via di fuga verso l’uscita, le guardie delle S.S. cercarono di bloccarli. Dovevano lavorare per il Terzo Reich, perché l’Aquila era ancora saldamente nelle mani ‘nazifasciste’. E quel blocco renderà più pesante il numero dei morti.

Scriverà Gianfranco Di Giacomantonio che: “Era un inferno. Si incontravano persone che gridavano e correvano verso la Zecca per conoscere la sorte dei propri cari; i superstiti del disastro, atterriti, cercavano di raggiungere il centro, mentre schegge impazzite e detriti proiettati dalle esplosioni verso la città, procuravano altri feriti. Accorrevano sul posto, oltre ai civili, anche i frati di Santa Chiara e l’Arcivescovo Confalonieri che presero parte attiva alle opere di soccorso; lo stesso Arcivescovo sollevò con una spalla una trave di legno del tetto consentendo di estrarre dalle macerie alcuni feriti. Alla Zecca ci fu il maggior numero di vittime aquilane che insieme ai 9 Martiri appartengono al nostro recente passato che alcuni cercano di cancellare sotto un pretestuoso e riduttivo revisionismo storico. Noi abbiamo il dovere di non dimenticarli per un impegno di responsabilità civile cui nessuno deve sottrarsi perché le nuove generazioni si rendano conto che le guerre sono inutili e causano solo lutti e lacerazioni. Non recidiamo, quindi, il filo della memoria, che è lo strumento insostituibile per restituire vita e attualità a ciò che è sepolto dal passare veloce del tempo e dallo stravolgimento delle cose”.

L’Aquila era diventata – sin da quando il Duce fu liberato dal vicino Campo Imperatore dai paracadutisti della Wehrmaht – molto determinante nella strategia del Fuhrer e per suo conto del feldmaresciallo Albert K. Kesselring. Soprattutto sotto il profilo ‘finanziario’, perché come dai tempi di Socrate è certo che “tutte le guerre si fanno solo per denaro”. A L’Aquila c’era la Zecca della Banca d’Italia, il suo forziere, la cassaforte. È documentato – anche se pochi lo sanno – che, già ad ottobre del 1943 mentre i nazisti e i fascisti rastrellavano gli ebrei a Roma, il ministro delle Finanze della neonata RSI di Salò, Giampietro Pellegrini, su preciso ordine del Duce e sicuramente su gentile richiesta di Hitler, bonificò subito dalle casse della Banca d’Italia a quelle del Fuhrer, a Berlino, ben 12 miliardi e mezzo di lire ‘a titolo di riparazioni belliche’. Pochi giorni dopo – non soddisfatto il beneficiario - si arrivò ad un ulteriore invio a Berlino di altri dieci milioni in marchi, questa volta come ‘riserve auree’. 'Riparazioni belliche' poi di cosa? Perchè?

È terrificante dirlo, ma l’invasione nazista e tutti i crimini che gli uomini del Fuhrer, col consenso e con la viva partecipazione dei fascisti del Duce, furono ‘finanziati’ con le tasse e le imposte pagate dagli italiani. Solo nel solo primo anno (dall’8 settembre ’43 alla caduta di Roma del 4 giugno’44) l’Italia occupata pagò per “le spese generali del Terzo Reich” oltre 189 miliardi di lire, ad oggi quasi 65 miliardi di euro (2 o 3 volte il peso di una delle nostre ultime finanziarie). Questo come ‘cash’ e senza tener conto della ‘consegna sistematica gratuita ‘ (ossia del furto sistematico) dell’intera produzione bellica dell’Italia occupata ed in particolare nel Nord Italia.

In una nota, datata 29 settembre 1943, Vincenzo Azzolini - il governatore della Banca d’Italia dal 1931 al 1944 e grande ‘economista’ del Duce – ordinò subito il trasferimento dell’ingente tesoro della Banca d’Italia in Germania e lo spostamento effettivo della “Officine carte e valori” dall’Aquila alla meglio controllata Verona, dove di fatto c’erano il comando di Salò e gli uffici del gen. Graziani, ‘l’uomo della guerra’. Ma inizialmente questo secondo ordine venne sospeso, forse per ordine diretto del ministro tedesco della propaganda Joseph Goebbels – chissà come mai molto attento alle vicende della ‘zecca dell’Aquila’ – che ritenne non opportuno, come immagine, permetterlo.

Anzi in quei giorni lo stesso Goebbels, a Berlino, dinanzi ai cancelli dell’allora residenza di Hitler - prendo a prestito studi di Gianfranco Di Giacomantonio e Amedeo Esposito, pubblicati soprattutto dal 2003 - inscenò la farsa del “dono” di 13 miliardi di lire (oggi quasi 5 di milioni di euro), da parte della città dell’Aquila verso la ‘guida del mondo’, il loro Fuhrer.

Il ‘dono’ degli aquilani, e dell’Italia intera, non erano altro che i denari ‘rubati’ nei primi giorni in cui i nazisti avevano occupato la città dell’Aquila e che avevano trovato custoditi nei grandi caveaux della filiale della Banca d’Italia, di Corso Federico II. Tempo di capirne il valore e furono immediatamente spediti a Berlino. Dopo quel ‘regalo’ e capendo meglio la capacità produttiva delle “officine carte e valori” nessuno si sognò di trasferire quel know-how altrove. L’Aquila divenne, e restò, così la “banca” del Fuhrer per la guerra in Italia. Potevano gli Alleati permettere tutto questo?

In particolare, dopo Il 1°novembre 1943, quando i “tedeschi imposero al direttore delle ‘officine’, l’ing. Del Guercio, con il maggior sfruttamento dei macchinari e turni lavorativi continuati 24 ore su 24 (svolti da circa 700 donne aquilane), la produzione dei biglietti di banca da 600.000 pezzi fu portata a 900.000 pezzi al giorno”.

Quell’ordine giunto a Foggia - “Distruggete all’Aquila le officine carte e valori della Banca d’Italia” - doveva bloccare per sempre questa ‘produzione’, senza ‘se’ e senza ‘ma’. E il bombardamento doveva essere totale, completo, un chiaro messaggio in codice a Berlino. Racconterà molti anni dopo (ad Abruzzo Web) il professor Walter Cavalieri – uno dei più esperti sullo studio di quanto avvenne – “l’obiettivo delle incursioni era quello di colpire i mezzi motorizzati tedeschi e gli obiettivi d’interesse strategico, quali strade, ferrovie, stazioni ferroviarie e depositi di munizioni, la cui posizione veniva spesso segnalata agli Alleati da collaboratori italiani ostili alla Germania. La stazione ferroviaria del capoluogo e l’Officina carte valori della Banca d’Italia, nella zona del nucleo industriale di Pile, furono oggetto del più disastroso fra gli attacchi aerei avvenuti nel comprensorio”.

A dire il vero, il comando alleato aveva programmato l’attacco aereo per 4 giorni prima (il 4 dicembre), ma il cielo era troppo nuvoloso sull’Aquila e pertanto quel giorno i bombardieri furono mandati a scaricare il loro carico di morte altrove (Pescara). Il giorno 8 le condizioni meteo risultarono ideali. E l’ordine partì.

“L’obiettivo dei bombardamenti venne segnalato con un cerchio di fumo bianco da un aereo – spiegava Walter Cavalieri – ma alcune bombe vennero sganciate sul quartiere della Rivera. In realtà non poteva che trattarsi di un errore, dal momento che gli americani preferivano attacchi di precisione su obiettivi strategici, a differenza degli inglesi che invece adottavano i bombardamenti a tappeto.

Nel quartiere della Rivera i danni non furono moltissime poche case vennero distrutte e la popolazione sfollata venne ospitata nell’immediato in parte nel centro storico, in parte dai frati di Santa Chiara il cui contributo in quella circostanza fu fondamentale”. ‘Nel quartiere della Rivera i danni non furono moltissimi’ – forse - ma 25 persone innocenti anche qui morirono e, di alcune, mai si sono travati neppure i corpi. L’obbiettivo alleato venne raggiunto e la ‘produzione’ spostata a Verona, ma a quale costo?

Il fatto che nessuno conosca la strage provocata dalle ‘bombe dell’Immacolata’ conferma quanto pesante e, perché no, esagerato fu quell’ordine. Ma del resto, la guerra è guerra. Anche di scarse conoscenze e negate informazioni.

“Raccontare dei successi e dei fischi non parlarne mai”.

8 dicembre 2024 – 81 anni dopo

* Coordinatore della Commissione Storia e Memoria dell'Osservatorio


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