|
Triangolo rosa
di
Rinaldo Battaglia *
Nei giorni di inizio dicembre 1972, ben 52 anni fa, forse spinto dai venti libertari del ‘68, un cittadino viennese di allora 57 anni - Josef Kohout - trovò il coraggio e la forza morale di pubblicare un suo diario di vita e di guerra, essendo anche lui passato, per 5/6 lunghi anni, nei lager nazisti.
Il diario aveva un titolo a quel tempo anomalo, ma ben chiaro: ‘Gli uomini con il triangolo rosa’ (Die Männer mit dem rosa Winkel) - e ancora più anomalo, ma comprensibile, lo pubblicò usando uno pseudonimo, quello di un certo Heinz Heger. Comprensibile perché nel 1972 in Germania e in Austria certi argomenti risultavano ancora in parte tabù e soprattutto fuori legge e, peggio, non facilmente accettati dall’opinione pubblica.
Josef Kohout (nato nel 1915, agli inizi della Grande Guerra, nella Vienna imperiale di Francesco Giuseppe), durante il Terzo Reich, fu infatti fortemente perseguitato a causa della propria dichiarata omosessualità, ‘colpa criminale’ stando all’allora Codice penale nazista. Era il cosiddetto ‘paragrafo 175’, meglio noto formalmente come §175 StGB. Era la legge del momento, voluta dalla maggioranza dei tedeschi. Anche se va sempre detto che – come scriveva il grande poeta francese Jean Cocteau – “la verità non va mai confusa con l’opinione della maggioranza”. Come la libertà.
Era inizio dicembre 1972. Fu quello il primo caso al mondo, pubblicizzato sui libri con documenti, dati, riferimenti precisi. Tanto per capirci succederà anche altrove, come nel caso del francese Pierre Seel che non appena la Francia si arrese ai carri armati di Hitler nell’autunno 1940 – quando aveva solo 17 anni – venne arrestato dalla Gestapo, interrogato e torturato a sangue per due settimane. Fu poi deportato nel campo di concentramento di Vorbruck-Schirmeck, a trenta chilometri da Strasburgo, dove le violenze e le torture a causa del suo orientamento sessuale, proseguirono finché non lo convinsero con la forza ad arruolarsi nella Werhmacht (come alsaziano, parlava sia tedesco sia francese) e combattere sul fronte russo.
Miracolosamente si salvò, ma tornato nella sua Alsazia, come la maggior parte dei deportati, non poté e non riuscì subito a parlare delle sue sofferenze. Ivi compreso, ovviamente, cosa gli fosse successo prima del fronte russo. Cercò di farsi una ‘vita normale’, si sposò, ebbe tre figli ma solamente nel 1982 – quasi 40 anni dopo e dopo 10 anni dal libro di Josef Kohout – trovò la forza di raccontare e raccontarsi. Ma passerà ancora del tempo prima che uscisse in pubblico la sua autobiografia “Io, Pierre Seel. Deportato omosessuale”, tradotta anche in tedesco e in inglese (con un titolo molto eloquente: “La Liberazione era per gli altri”). Anche le parole contano, anche i titoli dei libri.
E se le sofferenze di Pierre Seel erano causate dall’invasore straniero, per Josef Kohout il caso era ancora peggiore in quanto ‘domestico’, figlio delle leggi del suo paese e delle ferree regole comportamentali del momento. A dire il vero solo la madre, sin da quand’era ragazzo, aveva accettato la ‘diversità’ del figlio. Diversità poi verso o rispetto a chi?
Eravamo attorno al 1930 nella Vienna che cominciava a sentire il vento del nazismo impregnare la vita a tutti, sulla scia di quanto avveniva già forte in Baviera.
Lo scriverà bene nel suo ‘Gli uomini con il triangolo rosa’, riprendendo una lettera della madre stessa, con parole inequivocabili e coraggiose in quel tempo:
«Mio caro figlio […] Se credi di trovare la felicità con un altro uomo, questo non ti rende in nessun modo mediocre […] Non hai nessun motivo di disperarti […] Ricorda, qualsiasi cosa succeda, tu sei mio figlio e potrai sempre venire da me con i tuoi problemi».
Parole inequivocabili e degne di una madre, mentre il padre (impiegato statale) restava sempre ai margini senza fanatismi ma anche senza opporsi al nuovo corso politico delle cose austriache. Tipica indifferenza in quel tempo opaco.
E fu così che Josef Kohout arrivò fino al 1938.
A quel tempo era uno studente universitario di Vienna, ma Vienna già dal 13 marzo era diventata ‘Germania’. Ed ecco lo stesso destino che vivrà l’anno dopo il francese Pierre Seel nella sua Alsazia: tradito da un suo amico, Fred in questo caso figlio di un fanatico gerarca nazista, convocato dalla Gestapo, arrestato e - in applicazione del paragrafo 175 – condannato a sei mesi di carcere, come "degenerato". L’accusa non era di poco conto perché produceva conseguenze anche per la famiglia. Il padre perse il lavoro e mesi dopo in preda alla disperazione si uccise. Forse pentito anche della sua precedente indifferenza, del suo colpevole silenzio mentre l’Austria cadeva sotto Hitler.
Josef Kohout (o, meglio, nel suo diario come Heinz Heger) racconterà che scontata quella pena, su preciso ordine dell'Ufficio centrale per la sicurezza del Reich, anziché la libertà si trovò invece deportato presso uno dei peggiori lager nazisti (Sachsenhausen), costretto a portare sulla casacca il triangolo rosa, il marchio distintivo dei deportati omosessuali con tanto di numero: il 1896 nel suo caso. Erano in 180 che portavano a Sachsenhausen quel simbolo, sempre separati dagli altri prigionieri per evitare che potessero esser "sedotti". E ovviamente sempre destinati ai lavori più pesanti, denutriti, scarsamente vestiti e l’inverno a Sachsenhausen (poco lontano da Berlino) risultava alquanto rigido. Racconterà di come per essere "rieducati attraverso il lavoro" erano “obbligati a spazzare la neve con le mani accumulandola di lato, per poi ricevere ordine di spostarla (sempre con le mani) da un'altra parte”.
Ma riuscì ugualmente qui a sopravvivere, avvantaggiato dal fatto che nel lager era diventato l'amante di un Kapò – lì condannato per crimini comuni - vivendo un’esperienza che in seguito definirà come "un rapporto di convenienza per ambo le parti". Ma durò poco quel periodo, perché forse scoperto, forse tradito.
Nel maggio 1940 Josef Kohout/Heinz Heger venne trasferito nella ‘fabbrica della morte’, il lager di Flossenbürg, in Baviera, e sottoposto ad orari di lavoro massacranti, nel disprezzo totale delle guardie delle SS e degli altri prigionieri. Ma anche qui visse altre "amicizie" con Kapò, e forse anche con un ufficiale delle S.S. omosessuale, tutte vicende che di fatto lo 'protessero' e probabilmente lo salvarono.
Nel libro scriverà chiaramente che a Flossenbürg come in tutti i lager del terzo Reich (e nell’entourage nazista fino a Berlino) l'omosessualità era in teoria alquanto osteggiata se non ripudiata ma parimenti usata in pratica, nella ‘normalità’ del lager. Anzi molti “che ricoprivano posizioni di comando all'interno della gerarchia degli internati” sfruttavano anche sessualmente i prigionieri. Crimine su crimine. Che altro dire?
Ma le cose nei lager peggiorarono ulteriormente dopo che, nell’estate del 1943, Heinrich Himmler decise la ‘rieducazione obbligatoria degli omosessuali ariani’, obbligandoli con la forza e la violenza ove opportuno “a frequentare regolarmente il bordello del campo, rifornito con internate "ariane" obbligate a prostituirsi”. Josef Kohout/Heinz Heger descriverà “queste umilianti esperienze” come "non solo imbarazzanti, ma anche strazianti".
Con l’arrivo degli Alleati da ovest e dell’Armata Rossa da est, i prigionieri di Flossenbürg il 24 aprile 1945 furono obbligati dai nazisti a lunghe ‘marce della morte’ verso di Dachau. Ma Josef verrà liberato, prima di arrivarci, dalle truppe americane nei pressi di Cham.
A guerra finita, e ritornato da uomo libero nella sua Vienna, cercò di ottenere i minimali risarcimenti previsti per gli ex-internati nei lager nazisti. Ma per quanto poco o nulla fossero, la legge post-guerra indicava che a beneficiarne potessero essere solo quelli ‘per motivi politici’. E il suo caso era diverso. Insistette e insistette ancora e per sei anni di prigione o lager alla fine ottenne “come risarcimento, un buono per l'acquisto di un fornello a gas.”
Quando un crimine diventa ulteriore motivo di differenze e di ipocrite distinzioni, rasentando il ridicolo.
Dalla liberazione serviranno per il vero Josef Kohout – nascondendosi però, come detto, al pubblico sotto il nome di Heinz Heger - altri 27 anni per rendere noti quei crimini e quelle violenze, fisiche e morali. Peraltro, per la sua stesura si avvalse della collaborazione dell'amico giornalista Hans Neumann. Sapeva che era un libro importante, apripista, che avrebbe aperto porte fino allora chiuse a chiave e non voleva cadere in superficialità o peggio banalità. Era per davvero un momento ‘clou’. Per sé e per tutti coloro che erano stati uccisi e/o deportati nei lager perché ‘diversi’ stando alla legge vigente.
Si deve sapere infatti che “il Paragrafo 175” nato nel Codice penale tedesco nel lontano 15 maggio 1871 – e fortemente ampliato e peggiorato da Hitler nel 1935 – venne, nella vecchia Germania Ovest, parzialmente ridotto solo nel 1969 e solo e soltanto nel 1973 – un anno dopo l’uscita di ‘Gli uomini con il triangolo rosa’ – parzialmente attenuato. Sarà totalmente abrogato invece solo nel 1994 dopo la riunificazione tedesca.
La guerra era finita da mezzo secolo, non altrettanto però i pregiudizi e le limitazioni a chi era, dalla maggioranza e dalla legge, definito o considerato 'diverso’. Anche se va sempre detto che “la verità non va mai confusa con l’opinione della maggioranza”.
Era il 1994 – 30 anni fa – e in quell’anno – il 15 marzo – anche il vero Josef Kohout finì la sua esistenza terrena.
Pensate: tra i suoi documenti o ricordi più cari venne trovato l’originale triangolo rosa, quello indossato sulla sua casacca con quel numero che lo identificava nel lager: il 1896. Ancora oggi risulta quale unico esempio di triangolo rosa appartenuto a un detenuto omosessuale, conosciuto e identificato. Oggi è visibile presso lo United States Holocaust Memorial Museum di Washington.
Sembrano storie lontane, di un tempo preistorico, eppure se ci guardiamo attorno restano ancora molto di attualità. Se poi ci fermiamo al ’Paragrafo 175’, sepolto da appena 30 anni, ci rendiamo conto di quanto male siamo messi in termini di diritti umani e di dignità della ‘persona’ in quanto persona.
Anche oggi ai tempi della falsa ipocrisia del ‘dio, patria & famiglia’. Anche oggi.
4 dicembre 2024 – 52 anni dopo - Rinaldo Battaglia
* Coordinatore della Commissione Storia e Memoria dell'Osservatorio
Dossier
diritti
|
|