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Le parole sono frecce
di
Rinaldo Battaglia *
Le parole sono come le frecce e, se bene scoccate, fanno sanguinare, talvolta anche uccidere.
Talvolta, se accese e usate con intelligenza, ti illuminano il percorso e – come per i nativi americani – con la loro scia ti indicano dov’è il nemico e soprattutto chi è.
Talvolta, se nella punta vengono avvelenate, non lasciano scampo a chi tu vuoi colpire.
Sono antenate, prima delle pallottole e del cannone, ma anche attuali e moderne, perché se ne è perso l’uso e la conoscenza della loro efficacia.
Le parole sono frecce, ma oggi hanno il vantaggio che, questo, pochi lo sanno. Ed è tutto dire ai tempi dei social, quando conta il ‘profilo’ che hai, non la persona che sei, e dove l’apparire ti dà il valore aggiunto rispetto all’essere.
Dalla tarda serata di un giorno normalissimo di un anno fa, il 30 settembre 2023 per la precisione - ricordo - è tornata in vita una parola nuova, che tutti pensavano scaduta come un yogurt andato male e che già nel suono sapeva di retrò nostalgico: ‘transumanza’.
Quei pochi che tra i meno ‘boomer’ di noi avranno sentito quella parola, per tradurla nella realtà attuale, avranno dovuto consultare la Treccani o, meglio, oggi più ‘up to date,’ la più comoda Wikipedia.
Transumanza: “s. f. [dal fr. transhumance, der. di transhumer «transumare»]. – Complesso delle migrazioni stagionali su largo raggio territoriale, e con accentuato dislivello verticale, con cui animali di grossa o media taglia si spostano dalle regioni di pianura alle regioni di montagna e viceversa, spontaneamente o condottivi dall’uomo, percorrendo particolari vie naturali (tratturi) nelle regioni a economia poco sviluppata, trasportate su strade ordinarie con appositi autocarri nelle regioni più sviluppate”.
Transumanza: parola peraltro italiana che, sebbene di derivazione francese come sanciva la Treccani, il suo ritorno tra i vivi avrà reso quel giorno felice l'allora ministro ‘della Cultura’ – ai tempi nostalgici si diceva più volgarmente ‘della Propaganda’ - Gennaro Sangiuliano, quello che per due anni puntava a salvare la lingua italiana perché convinto che ‘usare parole straniere fosse snobismo radical chic’. Suoi termini ovviamente (peraltro lui stesso, con poca coerenza, utilizzava la parola ‘snob’ che deriva da un sostantivo inglese e ’radical chic’ non è non nativo di certo della scuola italica di Dante). Missione comunque per ora fallita, visto che oggi non è più – come si sa - in quel particolare ruolo.
Transumanza: a dire il vero, io avendo studiato da ragazzo anche il ‘nostalgico’ Gabriele D’annunzio mi sono considero fortunato nel ricordare la sua:
“Settembre, andiamo. È tempo di migrare.
Ora in terra d’Abruzzi i miei pastori
lascian gli stazzi e vanno verso il mare:
scendono all’Adriatico selvaggio
che verde è come i pascoli dei monti….”
E ciò mi ha avvantaggiato nel capire l’uso e l’abuso della parola da un anno ritornata miracolosamente viva.
Il 30 settembre 2023 infatti durante una trasmissione televisiva, negli anni in cui la televisione è diventata sempre più centro di ‘formazione, deformazione e manipolazione delle menti’ più che fonte di informazioni, un giornalista (che nella mia ignoranza mediatica io avevo cominciato a conoscere solo negli ultimi anni – chissà poi perché - ma questo era ed è un mio limite) ha definito - parole testuali riportate il giorno dopo, il 1° ottobre, da molti media - ‘transumanza, se così possiamo dire, dall’Africa verso l’Europa’ la migrazione di migliaia se non milioni di uomini, donne e bambini verso le coste italiane ed europee.
Transumanza: si veicolava e si veicola – più o meno coscientemente, più o meno strumentalmente – al pubblico il messaggio che quegli ’uomini, donne e bambini’ sono ‘animali di grossa o media taglia’ (Treccani docet). Cioè, più volgarmente ‘bestie’. O, per usare termini nazisti o fascisti in voga 80/90 anni fa, ‘non-persone’. Ed è già un progresso: solo pochi mesi prima, nel febbraio 2023, un altro ministro li aveva vergognosamente definiti: “carichi residuali’.
Tempo fa, un grande artista tedesco del teatro e del cabaret, quale Dieter Hildebrandt, disse una cosa molto interessante, paragonando la nostra generazione a tanti San Tommaso: ‘Crediamo soltanto a ciò che vediamo. Perciò da quando c’è la televisione, crediamo a tutto’. E Dieter Hildebrandt sapeva cos’era il peso della propaganda: a 15 anni, nella Hitlerjugend, gli misero in mano un fucile, mandandolo convinto e contento a combattere, e dei suoi amici e commilitoni fu l’unico ad arrivare ai 18 anni o vedere la fine della guerra.
Crediamo soltanto a ciò che ci dice la televisione, in altre parole, il concetto.
Negli ultimi anni – parlando di uso e riuso di parole – è tornato di moda anche il termine di ‘nazione’. Usatissimo al tempo del Duce. Poco nota, se non agli addetti ai lavori, una frase che ha segnato il destino dell’Italia in quegli anni. È il ‘discorso del carro armato’ quando Mussolini, il 24 agosto 1934, disse che ‘la Nazione deve essere pronta alla guerra, non domani ma oggi’. Nazione, non Italia, Stato o Paese.
Nazione, perché la parola ‘Stato’ ha un valore ‘giuridico’ ed indica una comunità all’interno di un territorio dove tutti sono soggetti a medesime leggi, diritti e doveri.
‘Paese’ invece ha un valore ‘geografico’, legato al territorio e ai suoi confini e, essendo tutti i confini dei muri, o ne sei fisicamente dentro o ne sei fisicamente fuori.
La parola ‘Nazione’ infine sottintende un concetto ed un valore ‘selettivo’ (senza precisare chi lo sceglie perché ovvio) e non rispetta la parte giuridica e geografica: puoi essere dentro ai confini geografici ma non hai diritti giuridici. Perché qualcuno decide che tu non sei ‘nazione’. Come gli ebrei già dal 28 agosto 1931 con decreto/legge fascista n. 1227 o, peggio, dalle leggi razziali del 1938. Gli italiani ebrei erano italiani in quanto soggetti alle leggi dello ‘Stato’ italiano, erano dentro i confini del ‘Paese’ Italia ma non erano ‘Nazione’ italiana. Che vigliaccata!
Le parole sono frecce e quindi sono armi che, in quanto tali, indicano una direzione precisa quando le lanci.
Forse la definizione più idonea ed onesta, in tale senso, è di Gisèle Halimi, l’intellettuale peraltro franco-tunisina peraltro scomparsa pochi anni fa (luglio 2020), quando scriveva che:
“Le parole non sono innocenti. Traducono un'ideologia, una mentalità. Lasciare andare una parola significa tollerarla. E dalla tolleranza alla complicità, c'è solo un passo».
E, di conseguenza, vi è la responsabilità chiara di chi lancia la ‘freccia mediatica’ ma anche di chi, ricevendola, non fa nulla per opporsi. Altrove, nella Treccani, la chiamano ‘indifferenza’.
Era successo il 30 settembre 2023 e già il 1° ottobre arrivarono immediatamente i soliti discorsi – dei soliti noti – per dire convinti e convintamente che quel giornalista non si era spiegato bene.
Non so se anche magari l’allora ’consorte’ abbia ritenuto opportuno, da qualche parte, dare le sue spiegazioni, rivelando che forse in famiglia da loro si usavano termini così passati e nostalgici. Era già successo con la storia delle ragazze o ragazzine violentate solo qualche mese prima: “Se vai a ballare, tu hai tutto il diritto di ubriacarti - non ci deve essere nessun tipo di fraintendimento e nessun tipo di inciampo - ma se eviti di ubriacarti e di perdere i sensi, magari eviti anche di incorrere in determinate problematiche perché poi il lupo lo trovi".
E anche in quel caso il giornalista non usò bene le parole – che peraltro dovrebbe essere il suo mestiere, come il pallone per un calciatore – perché non sempre il lupo è cattivo.
Anzi il grande Andrea Camilleri (in “Ora dimmi di te”) sosteneva che “Il lupo non è, come ti hanno detto nelle favole, cattivo. Il lupo non è né cattivo né buono. Azzanna solo quando ha fame. L’uomo azzanna non per fame ma per invidia, per gelosia, per rivalità e questo, a differenza del lupo, lo rende colpevole”.
Talvolta i lupi sono migliori degli uomini. Forse perché non hanno per loro fortuna la possibilità tecnica di parlare, di conoscere il peso delle parole. E se vogliono colpire per indicare dov’è il nemico e quale sia quel nemico, non usano frecce – più o meno avvelenate – ma lo fanno alla luce del sole, rischiando anche la vita se trovano una bestia più bestia di loro sul cammino.
Le parole sono come le frecce e se bene scoccate fanno sanguinare, talvolta anche uccidere. Talvolta, ma sempre – sempre - ti dicono chi tu sia e come le usi. Quale messaggio vuoi veicolare o meno.
Transumanza? Il tema era essenziale nell’ottobre 2023, oggi - un anno dopo - è solo aumentato di importanza.
Transumanza?
Io direi ‘boomerang’ dopo secoli di sfruttamento economico, sociale, umano a danno di un continente da sempre sfruttato, verso il continente degli sfruttatori, passati, presenti e futuri. Non è una colpa dei nativi africani, ma un loro credito, che vogliono ora escutere come fosse una cambiale arrivata a scadenza.
Forse se partiamo da questo punto di partenza nel ragionamento, possiamo trovare strada facendo delle buone soluzioni, con dignità e rispetto della vita umana. Nell’interesse dell’uomo in quanto ‘uomo’.
Youness Khalki, il grande intellettuale marocchino, arabo e mussulmano, pochi anni fa sosteneva convinto che ‘chi non scavalca il muro del pregiudizio, non riuscirà mai a vedere oltre’. Da qualsiasi parte tu ti trovi davanti a quel muro.
Ecco: mi piacerebbe che in certi programmi che fanno opinione alla tv – magari quella su cui pago il canone, su quelle private ho meno diritti se non quello insindacabile del telecomando - ci fosse spazio anche per persone sul tipo di Youness Khalki. Ma non è nazionale, non ha parenti o cognati in alto e magari usa le parole sapendo che sono frecce.
Perché sempre le parole sono frecce. Anche se tu colpevolmente non lo sai.
1° ottobre 2024 – un anno dopo
* Coordinatore della Commissione Storia e Memoria dell'Osservatorio
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